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Obdulio Varela
A volte la leadership è sinonimo di coraggio e di visione del futuro: in un parola di personalità. In molti parlano di esempi eclatanti tratti dalla vita di personaggi pubblici che hanno condizionato gli eventi della storia. Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, Gandhi sono stati leader con i quali la storia ha dovuto fare i conti. Altrettanto valenti sono secondo me esempi che possono essere tratti dal mondo dello sport. Obdulio Varala, il grande capo nero, è senza dubbio un personaggio che ci ha insegnato qualcosa in termini di leadership.
La nazionale brasiliana forte di un gruppo di giocatori considerati insuperabili per estro, fantasia, velocità e capacità di gioco affrontò nella finale del Campionato del Mondo del 1950 la nazionale dell’Uruguay. Si giocò al Maracanà di Rio de Janeiro, stadio imponente e unico al mondo per capienza di posti, circa 200.000. Lo stadio era stato inaugurato per quell’edizione del Campionato e destinato ad ospitare le partire della nazionale locale e la finalissima, che si presumeva avrebbe visto protagonista proprio quella nazionale.
Per dirla tutta quella giocata il 16 luglio 1950 non era una finale vera e propria. Era l’ultima partita di un girone finale, formula che venne sperimentata solo in quella edizione del Campionato.
Comunque per l’incrocio dei risultati delle partite precedenti, che coinvolsero anche Spagna e Svezia, quella del 16 luglio 1950 fu effettivamente la partita decisiva che, fra l’altro, avrebbe consentito al Brasile di diventare Campione semplicemente pareggiando.
Un bel problema per gli uruguagi. Dover incontrare una delle nazionali più forti di tutti i tempi, che giocava in casa, di fronte ad un pubblico ferocemente convinto di portare a casa risultato, spettacolo e coppa.
Il grande capo nero, era un giocatore tecnicamente mediocre ma dalla forte personalità. Un leader in tutto e per tutto al servizio della sua squadra di club, il Peñarol, e della nazionale del suo paese, l’Uruguay. Consapevole della propria forza emotiva e del valore dei propri compagni prese per mano la sua squadra e la portò a conseguire un risultato che nessuno si sarebbe aspettato. Uno dei risultati calcistici più clamorosi della storia.
Nella partita conclusiva del girone finale del Campionato del Mondo del 1950 era a dir poco improbabile che qualcuno potesse pronosticare una vittoria dell’Uruguay, specialmente dopo che il Brasile, al primo minuto del secondo tempo ebbe ottenuto il punto dell’uno a zero con un bel gol di Friaca.
Solo un uomo con doti di leadership immense poteva risvegliare nei compagni la voglia di prendere un pallone, giocarlo e andare a vincere una partita in condizioni impossibili.
In quel caso le sue doti vennero codificate in atti e gesti degni di un vero capo, un capo autorevole e incontestabile.
L’inizio della riscossa fu entusiasmante. Dopo che la palla ebbe finito di rotolare in fondo alla rete Obdulio Varela andò a prenderla. La sistemò sotto il braccio e senza esitazioni, ignorando il boato incredibile prodotto da 200.000 brasiliani impazziti sugli spalti, ignorando la disperazione dei compagni, ignorando l’entusiasmo dei giocatori avversari, andò dritto verso il centro del campo, marciando a testa alta. Sistemò il pallone nel cerchio di centrocampo e si voltò a guardare i compagni. A distanza di anni i fortunati che erano in campo quel giorno parlano ancora dello sguardo di Varela e ricordano le uniche parole che disse in quel frangente, le uniche parole che udirono provenire dalla sue labbra in tutta la partita: “questa partita la vinciamo noi”.
Varela era nato per essere leader e aveva trovato nel calcio, nella sua professione, le condizioni necessarie per mandare ad effetto le sue potenzialità. Un capolavoro di coraggio, visione, forza morale. Varela era un leader e da leader sapeva comportarsi.
Il grande capo nero, come lo chiamavano compagni e tifosi aveva 33 anni nel 1950. Da 13 era un giocatore professionista. Prima come centrocampista difensivo poi come libero aveva giocato nel Wanderers e nel Peñarol di Montevideo, calcando quasi tutti i campi del Sud America.
In quel Campionato del Mondo era il capitano della nazionale, il ruolo di maggior responsabilità in una squadra. La sua carriera era all’apice. La pratica di leardeship contenuta nel ruolo era stata costruita appunto in anni e anni di calcio. Una formazione più pratica che teorica.
Come è noto una didattica della leadership nel senso vero della parola non esiste. Costruire leader e renderli autonomi è impresa titanica per tutti. Si può cercare semmai di preparare le condizioni necessarie alla loro maturazione. Gli MBA e i tanti percorsi di completamento delle competenze dei giovani che si candidano a gestire risorse e persone con risultati soddisfacenti, sono indirizzati a dare una formazione complementare al ruolo, che possa consentire di lavorare con una solida base tecnica sulla quale sviluppare le doti di leadership.
I formatori spesso cercano di stimolare caratteristiche che afferiscono alla definizione di leadership ma non ne completano la trattazione. Esempio le capacità di coordinamento del personale, la tecnica di ascolto, le tecniche analitiche per prendere decisioni in tempi brevi. Tutti pezzi di un puzzle che, irrimediabilmente, al momento di essere assemblati, non danno il risultato di codificazione della leadership. Come dire che il sistema non è la semplice somma delle sue parti ma qualcosa di più.
Esiste invece una consapevolezza diffusa che definisce una sorta di sostrato naturale, sul quale l’individuo, con abnegazione e intelligenza potrà realizzarsi leader. E’ appunto un approccio sistemico che conferisce al ruolo un senso di irriducibilità capace di renderlo complesso.
Un soccorso arriva dalla formazione sul campo. Nel senso che là dove la capacità di trasmettere conoscenze codificate si arresta è la pratica quotidiana che sviluppa tutta quella serie di capacità indispensabili al leader.
Con un notevole sforzo di studio e analisi delle dinamiche intra e inter gruppo sono stati selezionati tecniche e metodi di intervento volti ad accompagnare le persone a raggiungere la meta. Mi riferisco naturalmente all’assessment, al coaching, al mentorig a quelle tecniche e quei metodi che servono a tirar fuori dall’individuo le doti necessarie a diventare un vero leader.
Tecniche e metodi che servono per gestire lo sviluppo individuale e di conseguenza quello delle organizzazioni, perché è in questo contesto che vengono utilizzati.
La codifica di questi approcci è ancora lontana dall’aver fine e forse risiede in questo la loro efficacia. Perché sperimentare è sinonimo di discussione, di ricerca continua di quello che può essere meglio fare.
Accanto alle tecniche codificate c’è pur sempre l’osservazione di quello che è accaduto e la selezione di quello che può fungere da esempio. Una pratica libera e indiscreta. Capace da sola di trovare il suo senso o di essere, sia positivamente che negativamente, fraintesa e sopravvalutata ma proprio per questo ancora più valida. Osservare e selezionare quello che ci piace significa compiere un’operazione arbitraria. Dare senso a cose che per altri non lo hanno. Per questo è una pratica creativa.
Selezionare un esempio, dagli credito come pratica e utilizzarlo come metodo è un’operazione rischiosa ma efficace. L’analogia è lo strumento essenziale per sostanziarne la pratica. Porre in essere meccanismi di selezione, traduzione in esempio e assegnazione di significati è un’operazione analogica. Un tentativo di dialogare su contenuti validi per contesti diversi.
In questo caso l’analogia è fatta sul campo in senso letterale. Il campo di calcio è il luogo dell’osservazione, della pratica di ladership di Obdulio Varela, capitano della nazionale dell’Uruguay.
Esattamente diciannove minuti dopo il gol del Brasile, Schiaffino, grande talento del calcio mondiale di tutti i tempi, infilò la porta di Barbosa, il portiere della nazionale verde oro. Tutti i commentatori dell’epoca riferiscono dell’irreale silenzio che accompagnò il fatto. L’Uruguay stava frantumando le speranze delle 200.000 persone allo stadio e dei milioni di persone fuori. Obdulio non disse niente e nemmeno i suoi compagni festeggiarono più di tanto il gol. In un certo senso rispettarono gli avversari.
Da notare che fino ad allora la partita era stata sostanzialmente equilibrata. Nel primo tempo la straordinaria potenza offensiva del Brasile aveva impressionato ma in verità le occasioni da gol erano state poche e poco limpide. Fra l’altro l’Uruguay aveva a sua volta impensierito la difesa del Brasile con blande azioni di rimessa. Nel secondo tempo la partita sembrò decollare con il gol di Friaca. Se non che appunto la sapienza di Varela rimise le cose a posto. Con la scena della marcia verso il centro del campo e la recita della frase di incitamento verso i compagni il grande capo nero aveva fatto si che la partita rimanesse ad un tono emotivo basso e nel contempo aveva mosso l’orgoglio dei suoi.
Il gol di Schiaffino, voluto e cercato da tutti, fu l’effetto del lavoro di motivazione e della capacità di controllo del capo. Un leader che seppe serrare le fila e rilanciare in un momento fondamentale.
Come dicevo il Brasile poteva accontentarsi del pari. Sarebbe bastato quell’uno a uno per rendere immortale quella nazionale. Sarebbe bastato difendere un risultato tutto sommato giusto.
Obdulio non diceva niente ai suoi. Non parlava appunto da quando aveva chiesto la vittoria.
Come un bravo generale se ne stava nella sua posizione. Copriva gli spazi, rilanciava, agiva in anticipo sugli avversari. Sapeva che fare quello e farlo bene sarebbe stato sufficiente a vincere quella partita. Allo stesso modo coordinava i compagni nella tattica di gioco. Bisognava difendere bene e rilanciare per la velocità di Ghiggia e Schiaffino. Tutti sapevano che Varela li stava guardando. Era un comportamento determinato, motivante, quello che ci voleva per quei compagni. Infatti appena ne ebbe l’occasione Ghiggia, su lancio di Obdulio, infilò la difesa avversaria e mise dentro la palla per la seconda volta. Erano passati tredici minuti dal gol di Schiaffino. E il Brasile non era riuscito a capire cosa stava accadendo. Solo silenzio e niente altro. Ghiggia alzò le braccia e corse verso Varela semplicemente in silenzio.
Obdulio Varela aveva liquefatto il Brasile con la carica della propria personalità. Aveva saputo sfruttare i momenti giusti, usato gli argomenti giusti e compiuto quello per cui era nato e si era formato in tante partite.
Dopo la partita, che laureò l’Uruguay per la seconda volta Campione del Mondo, particolare non da poco, il capitano Obdulio Varela andò a spasso per la città di Rio de Janeiro. Era notte e il dramma del pomeriggio stava ancora producendo i suoi frutti. La città era immersa in un penoso silenzio.
I pochi avventori dei bar del centro ebbero il privilegio di bere con Obdulio, quello che li aveva sconfitti. Forse nessuno lo riconobbe veramente. Comunque sia il capitano passò la notte a bere e fumare sigarette nei bar di Rio. Non fu, come disse lui successivamente, un modo per denigrare i tifosi avversari ma un modo per ribadire la propria dignità di campione dello sport rendendo onore ai vinti.
Bevve con i tifosi affranti per rendergli omaggio. Far capire che la loro squadra era stata sconfitta dall’organizzazione di gioco, dall’umiltà, dalla capacità di far fronte alle difficoltà di un gruppo di gente come loro. Un gruppo per il quale un ottimo leader aveva trovato gli stimoli giusti.
Cercava di farlo capire con un’azione empatica. Immedesimandosi con il dolore dei vinti nella depressa notte di Rio. Direttamente non parlò a nessuno della partita ma fece capire da che parte stava, come era andata al Maracanà, quale impressione aveva avuto della città. Ci vuole coraggio per andare in mezzo ai bar di Rio a parlare di un dolore ancora cocente. Spiegare che la dignità di una sconfitta è sempre superiore ad ogni vittoria.
Le prerogative della leadership giungono anche a questo. Avere la dignità e il coraggio di spiegare agli sconfitti come è andata la cosa. Perché hanno perso. Dove hanno sbagliato. Non c’era timore nelle sue parole ne tanto meno ironia. Si ubriacò con le migliaia di brasialiani affranti di quel giorno.
Obdulio ci conferma ancora che le doti di leadership sorgono su un humus di dedizione, coraggio, lealtà, dignità e soprattutto di comprensione. Essere leader significa generare una serie di comportamenti che modellano uno stile di vita e sono a loro volta frutto di approcci alla vita all’insegna dell’onestà.
Tornata in patria la squadra nazionale dell’Uruguay venne accolta da un incredibile entusiasmo. All’aeroporto c’erano migliaia di persone. I giocatori scesero dall’aereo e si immersero in una folla immensa che li acclamava. L’eccitazione di tutti era al massimo.
Obdulio, ultimo della fila, non sorrideva. Era impassibile, serio, si leggeva ancora la determinazione nel suo volto. Aveva compiuto il proprio dovere, svolto il suo lavoro. Ora accoglieva la gloria con la dignità di un vero capo. Cercando, con la sua audacia, di riportare tutti sulla terra. Perché in fondo era stata una partita.
Conoscere il proprio limite, sapere dove si sta negli innumerevoli significati della vita, vuol dire davvero essere un grande. Questo era scritto nella vicenda umana di Varela. Le immagini sbiadite di quei momenti testimoniano a tutti, ancora oggi, queste dinamiche.
Il grande capo nero, con diciassette denti in bocca, le gambe martoriate, e una forte, perenne, emicrania, aveva capito che la sua squadra avrebbe vinto la finale, che una partita non è poi la fine del mondo, che, infine, bisogna essere capaci di vivere fino in fondo le proprie possibilità.
Con tutti i limiti che può avere l’analogia sportiva, il calcio in genere e la scelta selettiva di chi vuole trarne insegnamento penso che una metafora come quella di Varela sia un esempio eclatante di quelle che devono essere e sono le doti di un vero leader, nella pratica quotidiana della sua esistenza.
Da quel lontano 1950 la nazionale brasiliana ha vinto per ben cinque volte il Campionato del Mondo di calcio. L’Uruguay non ha più vinto un Campionato.